Strumenti di Culto II: suppellettili sacre

Le fonti riportano anche la descrizione di alcuni vasi e suppellettili usati durante i riti sacri, la maggior parte servivano per le libagioni di vino, prova della sua grande importanza in ambito religioso. In generale tutti gli strumenti usati in un sacrificio dovevano essere purificati, troviamo ad esempio vasa pura [Plaut. Amph. 1126. Capt. 861] e in Ovidio vediamo un mercante prelevare acqua lustrale con un urna purificata attrvaerso suffimenta (suffitta urna) [Ov. Fast. V, 675 - 676]. Era anche usanza cingerli con corone o vittae [Verg. Aen. I, 724; Serv. ad loc.]. Secondo gli autori di età imperiale, in epoca arcaica i Romani usavano solo supellettili di terracotta e, in omaggio a questa tradizione, ancora alla loro epoca le supellettili sacre erano in terracotta [Plin. Nat. Hist. XXXV, 46, 158; Val. Max. IV, 4, 11; Apul. Apol. XVIII; Dion. H. II, 23]

Acerra: contenitore in cui era riposto l’incenso da usare nei sacrifici, solitamente portata dai camilli [Suet. Gal. VIII; Plin. Nat. Hist. XXXV, 30], da cui viene l’espressione ‘de acerra libare’ [Hor. Car. III, 8, 2; Ov. Pont. IV, 8, 39; Fast. IV, 935; Met. VIII, 266; XII, 703; Pers. II, 5; Verg. Aen. V, 745;

Serv. Ad loc.; AFA pg 26 H; Suet. Tib. XLIV; Mart. X, 24, 5]. Lo stesso nome era dato ad una piccola ara posta davanti alle tombe, su cui bruciavano sostanze odorose [Fest. 18; Cic. Leg. II, 24, 60]. I contenitori per l’incenso erano chiamati anche arcula [Fest. 18].

 

Ancabria: vasi sacri usati dai sacerdoti e posti sulle mensae chiamate anclabris [Fest. 11].

 

Arculum: vaso che era portato sulla testa e sostenuto di un ramo di arbor felix piegato ad arco, chiamato

arculum (da cui forse il nome del vaso) durante i riti pubblici [Fest. 16].

 

Arferia e cuturnium: erano altri vasi con cui si versavano libagioni di vino durante i servizi religiosi [Fest. 11; 51].

 

Armillum: una sorta di piccola giara per il vino (Varrone la definisce urceolus), usata nei riti, che veniva tenuta sulla spalla, armus, da cui il nome [Fest. 2; Var. apud Non 547, 12]. Doveva trattarsi di un vaso molto comune, tanto da dare origine ad una frase proverbiale “ad armillum redire” o “revertere”, tornare alle anriche abitudini [Lucil. XXVIII Apud Non. 74, 13; Apul. Met. VI, 22; IX, 29]

 

Athanuvium (o atanuvium): coppa d’argilla di cui si servivano i sacerdoti [Fest. 18], una capula [Var. L. L. V, 121] forse simile alla patera.

 

Bria (o hebria): vaso per il vino [Arnob. Adv. Nat. VII, 29; Charis. De Nom. 105, 3]

 

 

Calpar: vaso di terracotta usato per prelevare il vino dai dolia e versare libagioni di vino nuovo [Fest. 46; 65; Non. 547, 1].

Cantharus: era il nome di un tipo di barca e di un boccale a due manici che salivano verso l’alto [Plaut. Asin. V, 2, 56; Bacch. I, 1, 36; Men. I, 2, 64; I, 3, 5; Most. I, 4, 33; Pseud. IV, 2, 2; IV, 4, 13;

V, 1, 34; Pers. V, 2, 22; V, 2, 40; Rud. V, 2, 32; Stich. V, 4, 23; V, 4, 48; Hor. Car. I, 20,

2; Epist. I, 5, 23; Sid. Apol. Epist. IX, 13, 5] usato per le libagioni di vino [Verg. Ecl. VI, 17; Nemes. Ecl. III, 48], proprio di Dioniso Liber [Verg. Ecl. VI, 13 17; Macr. Sat. V, 21, 1; 14; 16; Plin. Nat. Hist. XXXIII, 53, 150; Val. Max. III, 6, 6; Arnob. Adv. Nat. VI,

25].

 

 

Capis: ciotola o piccolo orcio di terracotta con un solo manico o un’ansa, usata durante i sacrifici [Var. L. L. V,

 

121; Prisc. GL II, 251, 13; Var. apud Non. 547, 12; Fest 48; Petr. Sat. LII, 2; Plin. Nat. Hist. XXXVII, 2, 18], assieme al lituo era simbolo degli auguri [Liv. X, 7, 10; Var. L. L. V, 121]: questi due strumenti compaiono spesso associati su monete coniate da personaggi che ricoprivano questo sacerdozio. Detta anche capula, capeduncula [Cic. Nat. Deor. III, 13, 43], o capedo (cupedo), il suo uso anche in ambito profano era sicuramente antico [Plin. Nat. Hist. XXXVII, 3, 20], ma dal I sec. aev. viene ricordata solo come strumento rituale [Cic. Paradox. I, 2, 11; Rep. VI, 2]. Esisteva il mestiere del capulator, colui che versava l’olio nelle giare [Col. R. R. XII, 52, 5].

Carchesium: coppa alta, più stretta al centro, a due manici [Athen. Deipn. 474f], con poggiante su un piede conico [Athen. Deipn. 488f], solitamente di metallo o pietra dura, usata per libagioni [Verg. Aen. V, 77 78; Georg. IV, 380 381] principalmente di vino [Ov. Met. VII, 246; Val. Flac. II, 656; V, 274; Sil. It. XI, 301; Stat. Achil. I, 680; Theb. IV, 502], ma anche di latte [Ov. Met. VII, 247]. Benchè citata da Virgilio e altri poeti, Macrobio afferma che tale contenitore non viene mai impiegato per usi rituali dai romani [Macr. Sat. V, 21, 1 3]; tale affermazione si

 

riferisce probabilmente al rito pubblico officiato dai pontefici, mentre l’abbondanza dei riferimenti poetici fa pensare che fosse comune nel rito privato. La sua forma era ssimilata a quella della sommità dell’albero delle navi [Lucil III, 37. Apud Non. 546, 23; Catul. apud Non. 546, 23; Lucr. V, 418].

Crater (o cratera): vaso di grandi dimensioni in cui il vino veniva mescolato con l’acqua; nel rito romano, però, il vino era sempre puro, non mescolato [Non. 546, 25; Ov. Met V, 82; XII, 236; XIII, 681; 701; Verg. Aen. V, 536; IX, 266; 346; Cic. Att. II, 8, 2; Verr. II, 4, 131; Fam. VII, 1, 2; Liv. V,

25, 10; V, 28, 2; Val. Flac. I, 337; V, 694; Hor. Sat. II, 4, 80; Juv. Sat. IV, 12, 44; Pers. II, 52;

Stat. Theb. V, 255; X, 312 13; Apul. Flor. XX; Sil. It. VII, 190; Mart. XII, 32, 12]. Usato per libagioni, soprattutto nei riti funebri [Verg. Aen. I, 723; III, 524; VI, 225; VII, 147; IX, 165; XII, 285; Ecl. V, 68; Georg. II, 527 – 530; Serv. Aen. I, 724; XII, 118; Georg. II, 528; Ov. Met.

VIII, 672; 683; Fast. II, 252; V, 522; Hor. Car. III, 18, 7; Val. Flac. IV, 343; V, 615; Prop. III, 17, 37 38; Stat.

Theb. VI, 531; Sid. Apol. Epist. II, 9, 8]. Il cratere era solitamente colmato fino all’orlo di vino (cioè “incoronato”) e il liquido era poi prelevato con la trulla vinaria (vedi oltre) [Verg. Aen. I, 723 24; Serv. Ad loc.; Verg. Aen. III, 525 26; VII, 146; Georg. II, 528; Serv. Ad loc.]. poteva contenere non solo vino, ma anche olio [Verg. Aen. VI, 225]

 

 

Culillus: calice in terracotta usati dalle vestali [Acron. In Hor. Car. I, 31, 11].

Cymbium: contenitore a forma di piccola barca, di origine greca [Var. apud Non. 545, 28; Macr. Sat. V, 21, 1; 7 11; Fest. 51], di vari materiali [Mart. VIII, 6, 2; Apul. Met. XI, 4; 10], usato nelle libagioni [Verg. Aen. III, 66; Serv. Ad loc.; Verg. Aen. V, 267; Serv. Ad loc.], principalmente per il latte [Stat. Theb. VI, 212; Prud. Apoth. III, 472; Nemes. Ecl. I, 67],

benchè Varrone lo annoveri tra i vasa vinaria [Var. apud Non. 545, 24]

 

Futtilis: sorta di anfora dalla bocca larga e dal fondo stretto, in cui le vestali conservavano l’acqua [Serv. Aen. XI, 339; Lact. ad Stat. Theb. VIII, 297; Donat. ad Ter. Andr. 609; ad Phorm. 146; Fest. 89]. Data la forma non potevano essere appoggiati a terra, ma dovevano essere tenuti sollevati da sostegni, questo poiché l’acqua versata nei riti per Vesta non poteva essere tenuta a contatto col terreno [Serv. Aen. XI, 339]

 

 

Gutus (o guttus, anche gutta): contenitore di piccole dimensioni, dal collo allungato, con cui si versavano i liquidi, in particolare il vino, goccia a goccia [Var. L. L. V, 124; Hor. Car. I, 3, 13]. In epoca arcaica diffuso durante i banchetti annoverato tra i vasa vinaria da Varrone [Var. apud Non. 545, 24]), fu poi soppiantato da altre supellettili di origine greca come l’epichysis e il cyathus, ma restò come vaso per gli usi rituali, soprattutto nel rito domestico, associato alla patera [Hor. Sat. I, 6, 116 118; Plin. Nat. Hist. XVI, 73, 185]. Era usato anche per versare oli

[Gell. XVII, 8, 5; Juv. Sat. III, 263; XI, 158; Mart. XIV, 52; PLM I, 185, 113].

 

 

Irnela (o hirnula): vaso impiegato nelle cerimonie sacre [Fest. 105], diminutivo di hirnea o irnea una giara per contenere liquidi ad esempio il vino [Var. apud Non. 546, 24; Cato Agr. LXXXI; Plaut. Am. 427; 429 30].

Lanx: piatto, rotondo o quadrangolare [ULP. Dig. XXXIV, 2, 19; Paul. Dig. VI, 1, 6], di grosse dimensioni (panda)

[Verg. Georg. II, 193 193; Hor. Sat. II, 4, 40], forse in origine piano, ma poi anche concavo (cava) [Mart. XI, 31, 19], su cui si

presentavano le offerte agli Dei [Verg. Georg. II, 194 195; Hor. Sat. II, 2, 4; 4, 41; Ulp. Dig. XXXIV, 2, 19; Ov.

Pont. III, 5, 50; IV, 8, 39 40; IV, 9, 33; Plin. Nat. Hist. XXXIII, 53, 145; Cic. Att. VI, 1, 13; Gajus Inst. III, 192; Gel.

Gell. XI, 18, 9; XVI, 10, 8; Paul. Sent. III, 6, 86], era usato per incenso [Ov. Pont. IV, 8, 40; Prop. II, 13, 23] ed

exta dei sacrifici [Verg. Georg. II, 194; 394; Aen. VIII, 284, XIII, 215].

 

ad aras, / lancibus et pandis fumantia reddimus exta [Verg. Georg. II, 193 194]

 

Ausonio annovera il lanx tra tre supellittile sacre usate nel culto, assieme a patera e turibulum [Auson. Techop. VIII, 12, 5]. Nel tempio di Cerere vi erano posti i frutti della terra [Acron. ad Hor. Sat I, 1, init; Diomed. III, pg 483]; in ambito profano carne o pesce [Hor. Sat. II, 4, 40; Juv. V, 80; Plaut. Curc. 323].

Anche i piatti delle bilance erano chiamati lanx da cui bi-lances.

Le leggi delle XII Tavole punivano come colti in flagrante i furti scoperti per lances liciumque, ovvero era punito colui nella cui abitazione era scoperta la refurtiva [Tab. I, 10 apud Gell. XVI, 10, 8 ; Varr. L. L. VI, 74 ; Gajus Inst. III, 192; 193; 223 ; IV, 31; 184 ; Isid. Orig., V, 27, 24 ; Fest. 117; 363; Prisc. Inst. gramm. VI, 13, 69 ;

Iust. Inst. IV, 4, 7; Tab. VIII, 15 apud Gell. XI, 18, 9 ; XX, 1, 14; Modest. Dig. XLII, 1, 20; Cic. De Orat. I, 38, 39;

Iust. Cod. III, 31, 12 pr. ; Plin. Nat. Hist. VII, 60, 212].

 

Lepesta (o lepista, anche lepasta): coppa in terracotta o metallo per bere usata nei riti sacri in terra sabina [Fest. 115; Var. L. L. V, 123; Var. apud Non. 547, 20; Var. apud Prisc. GL II, 263; Naev. Apud Aphthon. GL VI, 139]. Varrone la annovera tra i vasa vinaria che si trovavano sulla mensa [Var. apud Serv. Ecl. VII, 33].

 

 

Olla (o aula): contenitore di grandi dimensioni, giara  o pentola [Cato Agr. LII, 1; LXXXI; LXXXV; Plaut. Aul. II, 8, 20; 22; III, 6, 44; 47; IV, 2, 4; 7; Capt. I, 1, 21; IV, 2, 66], poteva essere in metallo o, più spesso, in terracotta [Ov. Met. VII, 318; Plaut. Aul. V, 1, 2; Plin. Nat. Hist. XXXVI, 22, 44; Col. R. R. VIII, 8, 7], usato per cuocere i cibi [Var. apud Non. 543, 5; Fest. 23; Col. R. R. XII, 43, 11; Juv. Sat. XIV, 171; Petr. Sat. XXXVIII, 13], o immagazzinarli [Mart. VII, 20; XII, 32; Plin. Nat. Hist. XV, 6, 22; XXXVII, 10], oppure per riporre oggetti preziosi [Cic. Fam. IX, 1, 8]. Le ollae erano usate per bollire gli exta dei sacrifici (chiamati que questo aulicocta) [Fest. 23], oppure per preparare altre pietanze da usare nei riti sacri, come ad esempio nel sacrificio degli Arvali alla Mater Larum: in questo caso sappiamo che le ollae contenenti la puls destinata alla Dea erano consacrate prima di essere gettate dalla collina sui cui sorgeva il tempio di Dea Dia [AFA CCVIII; 26 27].

 

Patella: piccola coppa, bassa e larga, senza manici, usata nei sacrifici per presentare offerte agli Dei. [Fest. 248; 249; Schol. In Pers. III, 26; Hor. Car. I, 3, 13; Cic. De Fin. II, 22; Var. apud Non. 543, 28; Ov. Fast. VI, 310; Juv. Sat. V, 83], una piccola patera. Era annoverata tra le supellettili sacre presenti nelle case romane assieme alla patera e al turibulum [Cic. Ver. II, 4, 47; 48; 54]; in particolare era associata al

 

salinum (vedi oltre) con cui formava una coppia che era considerata indispensabile per onorare gli Dei nel culto domestico [Liv. XXVI, 36, 6; Pers. III, 25 27; Val. Max. IV, 4, 3], tanto che il non possederla era equiparabile ad un atto di empietà [Cic. Fin. II, 22]. Usata in particolare per il culto dei Lari, che erano chiamati nche Patellari Dii [Plaut. Cist. II, 1, 46; Schol. Pers. III, 26; Ov. Fast. II, 634], tra i doveri di un buon cittadino vi era quello di venerare gli Dei presentando le offerte su di essa [Non. 544, 1]. Poteva essere in argento [Cic. Ver. II, 4, 46; Val. Max. IV, 4, 3], o in terracotta [Mart. V, 78; XIV, 114; Juv. Sat. VI, 344].

 

Patera coppa, bassae larga, senza piede, a volte con un manico, per versare le libagioni [Macr. Sat. V, 21, 1; Plaut. Anph. I, 1, 104; II, 2, 128; Sall. Cat. XXII, 1; Cic. Brut. XI, 43; Ov. Met. IX, 160; Hor.

Sat. I, 6, 118; Car. I, 31, 2; IV, 5, 34; Verg. Georg. II, 192:]. Durante le cerimonie per l’installazione dei magistrati, la si usava per condividere la potio e offrire vino alle divinità [Var. L. L. V, 122]. Poteva essere di vari materiali dalla terracotta [Hor. Sat. VI, 116] ai metalli preziosi [Mart. III, 41; VI, 13; VIII, 33; XIV, 95; Plin. Nat. Hist. XXXIII, 50, 156; Juv. Sat. V, 39; Verg. Aen. I, 729]. Gli studiosi ritengono che in epoca arcaica non facesse parte delle supellettili sacre, non è infatti annoverata tra gli strumenti indispensabili al culto domestico a differenza della patella e del salinum,   inoltre  era  simbolo  degli  epulones,  un  collegio  istituito  in  epoca  medio- repubblicana, e non era associata ad alcuno dei sacerdozi più antichi. Il suo

impiego entrò nella pratica romana per influsso greco o etrusco e sostituì quello del simpulum. Rapidamente divenne il simbolo stesso dell’azione sacrificale, la troviamo infatti nelle rappresentazioni del culto domestico, in quelle del culto pubblico in mano a magistrati, sacerdoti, imperatori, divinità, sia su bassorilievi, che su monete [Cic. Ver. II, 4, 47 48; Hor. Car. I, 19, 15; I, 31, 2; IV, 5, 34; IV, 8, 1; Ov. Met. IX, 160; XIII, 704;

Fast. IV, 934; Verg. Aen. I, 729; 739; III, 66; 354; IV, 60; V, 91; 98; 775; VI, 249; VII, 133; VIII, 640; XII, 174; Vitr.

II, praef.; Plin. Nat. Hist. VIII, 77; XII, 41; XIV, 3; XXXIII, 58; XXXIV, 30; Liv. VI, 4, 2; X, 23, 13; XXII, 32, 4; 9; 36,

9; XXVI, 47, 7; XXVII, 4, 8; 9; XXX, 15, 11; XLIV, 14, 2; Petr. Sat. LX, 8; CXXXIII, 3; Cic. Div. I, 23, 46; I, 25, 54; Nat.

Deor. III, 34, 84; Paradox. I, 2, 11; Brut. XI, 43; Val. Flac. I, 660; 818; II, 348; V, 192; Sall. Cat. XXII, 1; Flor. Epit.

II, 12, 4; Stat. Theb. I, 541; VI, 211; X, 313; Mart. VI, 92, 2; VIII, 6, 14; Sid. Apol. Epist. IX, 13, 5; Prud. Cath. III,

17; Apoth. III, 481; Contr. Sym. I, 1, 127; Jerom. Epist. XIV, 5; Auson. Techop. VIII, 12, 5; Sil. It. XVI, 167; Val.

Max. I, 1(ext), 3; I, 6(ext), 1; V, 6(ext), 3; Claudian. Paneg. Prob. et Olyb. Cons. 247; Arnob. IV, 16, 6; VI, 1, 2;

VII, 29, 4]

 

Persillum vaso particolare, impermeabilizzato, in cui era contenuto l’unguento con cui si ungevano le armi di Quirino [Fest. 216].

 

Praefericulum: piatto o bacile di bronzo senza manici, dalla bocca molto larga, usato nei riti pubblici, era conservato nella Regia, nel sacrario di Ops Consiva [Fest. 248; 249]. Forse si trattava di un contenitore definito “niger catinus” [Juv. Sat. VI, 343] che la tradizione faceva risalire a Numa. Il suo utilizzo è incerto, poteva servire a presentare primizie o liba (ferctum), oppure per contenera la mola salsa.

 

Sacrima vasi per le libagioni di mosto a Liber [Fest. 318 - 319].

 

Salinum: si trattava probabilmente di una piccola tazza in cui erano contenuti sale o mola salsa da offrire agli Dei [Schol. Pers. III, 25; Hor. Car. II, 16, 14; Porphyr. ad Hor. Car. II, 16, 14; Acron. Ad Hor. Car. II, 16, 14; Stat. Sil. I, 4, 30; Fest. 329; 344; Val. Max. II, 8, 5; IV, 4, 3]. Era uno degli elementi indispensabili al culto domestico assieme alla patella (vedi) [Hor. Car. II, 16, 13; Liv. XXVI, 36, 2] e si trovava sulla mensa come segno di consacrazione (vedi mensa). Poteva essere d’argento o di terracotta [Plin. Nat. Hist. XXXIII, 49, 153; Val. Max. IV, 4, 3].

 

Scyphus larga coppa per il vino usata nel rito greco [Plaut. Asin. 444; Var. ap. Gell. III, 14, 3; Non. 545, 14; Cic. Verr. II, 4, 14, 32; Tib. I, 10, 8; Verg. Aen. VIII, 278; Hor. Carm. I, 27, 1; Epod. IX, 33; Plin. Nat. Hist. XXXIV, 40,

 

141; 48, 163; Sid. Apol. Epist. IX, 13, 5]. In particolare per libare vino nei riti per Ercole (cui è proprio) all’Ara Maxima [Macr. Sat. V, 21, 1; 16; Verg. Aen. VIII, 278; Serv. Ad loc.]. Secondo un mito riportato da Servio, Ercole portò in Italia un enorme scyphus di legno che era custodito come oggetto sacro persso il luogo di culto e usato nei sacrifici [Serv. Aen. VIII, 278].

 

Simpulum [Fest. 337] piccola coppa di terracotta con un manico, per versare libagioni di vino [Plin. Nat. Hist. XXXV, 46, 158; Cic. Leg. III, 16, 36; Schol. In Juv. Sat. VI, 343] simile al cyathus, ma di forma e materiale più rozzi [Cic. Paradox. I, 2, 11; Nat. Deor. III, 17]. Si tratta di uno strumento usato dai romani fin dai tempi più antichi che fu sostituito dal cyathus per gli impieghi profani [Var. L. L. V, 124], ma fu mantenuto per quelli rituali [Plin. Cit.; Juv. VI, 343]. Apuleio lo nomina assieme al catinum [Apul. Apol. XVIII] e afferma che nei riti sacri queste supellettili erano di terracotta ancora ai suoi giorni così come in epoca arcaica.  Sappiamo  anche  che  erano  delle  inservienti,  chiamate  simpulatrices,  a porgere il simpulum al sacerdote [Var. L. L. V, 124; Schol. In Juv. Sat. VI, 343; Fest. 337]. Era  probabilmente  usato  per  trasferire  il  vino  da  contenitori  di  grandi dimensioni nelle capis, nella patera, o, più probabilmente,  per versare direttamente le libagioni, poiché solitamente non compare accompaganto

dalla patera che potrebbe essere stata introdotta nel rituale romano in un periodo più tardo. Era simbolo dei pontefici e compare spesso su monete

coniate da personaggi che ricoprivano tale sacerdozio. Nei banchetti nuziali il simpulator o simpulonis era un amico dello sposo che lo assisteva nei suoi doveri di ospite [Fulg. De Prisc. Serm. XLVII]

 

Simpuvium: bacile o coppa usato fin da epoca arcaica per offrire vino agli Dei durante le cerimonie sacre [Var. apud Non. 544, 24; Arnob. Adv. Nat. IV, 31; VII, 29; Cic. Har. Resp. XI, 23; Rep. VI, 2, 11; Plin. XXXV, 46, 158;

Juv. Sat. VI, 343]. Secondo Giovenale [Juv. Sat. VI, 343; Prud. Perist. II, 277], l’antico niger catinum, reliquia del re Numa, era un simpuvium. Dalle fonti di cui siamo in possesso sembra che simpuvium e simpulum fossero due contenitori differenti, tuttavia alcuni elementi inducono gli autori moderni a ritenere che fossero la stessa cosa: innanzitutto la somiglianza dei nomi, poi il fatto che Cicerone affermi che il simpuvium era il simbolo dei pontefici [Cic. Rep. VI, 2], quando, dai documenti iconografici, appare che a questi sacerdoti era associato il simpulum; infine l’attestazione di simpuviatrices a fianco delle simpulatrices [Schol. In Juv. Sat. VI, 343; Fest. 337].

 

Sinum e galeola: erano larghi vasi di terracotta o di metallo per il vino (benchè avessero usi molteplici, as esempio Virgilio cita il sinum come contenitore per il latte [Verg. Ecl. VII, 33]) di forma rotonda (il nome galeola è probabilmente connesso al casco che era parte delle armature antiche) e dimensioni maggiori delle coppe [Non. 547,15; Var apud Non. 547,15 e Prisc. GL. II, 263, 1; Verg. Ecl. VII, 33; Serv. Ad loc.; Schol Ver. ad loc.; Var. L. L. V, 123; Plaut. Curc. 75; 82; Rud. 1319; Verg. Georg. III, 177; Col. R. R. VII, 8, 2]. Varrone li annovera tra i vasa vinaria che erano sempre sulla mensa [Var. apud Serv. Ecl. VII, 33; Var apud Non. 547,15 e Prisc. GL. II, 263, 1; Var apud Non. 545, 24]

 

Subsilles o ipsulles erano laminette di metallo o piccole figure di uomini e donne usate nei riti sacri che, si credeva, rafforzassero l’efficacia della cerimonia [Fest. 306].

 

Trulla vinaria: sorta di mestolo usato per prendere il vino dal crater e trasferirlo in altri contenitori [Varr. L.

L. V, 118; Cato Agr. XII; Cic. Verr. IV, 27, 62; Hor. Sat. II, 3, 144; Mart. IX, 97, 1; Plin. Nat. Hist. XXXVII, 7, 20; Dig. XXXIV, 2, 36]

 

Trulleum o trulleus: [Plin. Nat. Hist. XXXIV, 2, 7]: bacile sopra il quale ci si lavava le mani [Var. L. L. V, 25; 34;

    Cato. Agr. X, 2] e i piedi con l’acqua versata da una brocca chiamata urceolum manale

[Var. apud Non. 547, 3]. Era anche chiamato polybrum o polubrum malluvium [Fest.

 

160; Liv. Andr. Apud Non. 544] e doveva essere tenuto con la mano sinistra, mentre il vaso da cui si versava l’acqua con la destra [Fab. Pict. De Jure Pont XVI Fr 7 P apud Non. 544]. Per il lavaggio dei piedi si usava il polubrum pelluvium [Fest. 246].

 

Turibulum: bracere portatile su cui si bruciava incenso [Cic. Verr. II, 4, 46; Liv. XXIX, 14, 13; Val. Max. III, 3, ext. 1; Auson. Idyll. XII, 104; Prud. Apoth. 479], solitamente in forma di candelabro con bracci che si allargavano da un asse centrale [Val. Max. III, 3, ext. 1]. Era annoverato tra le supellettili sacre presenti nelle case romane [Cic. Verr. II, 4, 46 47; Auson. Techop. VIII, 12, 5]. Durante i riti sacri, mentre l’incenso bruciava, si suonava la tibia turaria [Sol. 5; Plin. Nat. Hist. XVI, 66, 172; Verg. Georg. II, 193]

 

Urnula: vaso per l’acqua [Var. apud Non. 544, 9], Cicerone lo cita tra le più antiche supellettili sacre [Cic. Paradox. I, 2, 11].

 


Oltre alle supellettili, si possono ricordare altri strumenti impiegati durante i riti sacrificali

Culter: Lo strumento usato per uccidere le vittime sacrificali di taglia medio-piccola [Ov. Met. VII, 249; Verg. Aen. XII, 173] (ma anche per i bovini [Ov. Met. VII, 599; XV, 134; 465; Lucan. Phars. I, 611; ]) era il culter, spesso di bronzo, più raramente in ferro: ne esistevano di tipi differenti, alcuni usati per uccidere la vittima, altri per macellarla. L’inserviente (succintus minister [Verg. Georg. III, 488; Lucr. I, 90; Ov. Met. II, 717;  Fast. I, 421; IV, 413; 437; Lucan. Phars. I, 612; Prop. IV, 3, 62])

addetto a questi compiti era chiamato cultrarius [Suet. Calig. XXXII; CIL I, 1213]. Le fonti menzionano alcuni di questi strumenti ad uso rituale: il clunaculum, un lungo coltello tenuto appeso dietro la schiena e la secespita, un coltello dalla forma allungata, in ferro, col manico in avorio fatto di un pezzo unico e fermato con  borchie  d’oro  argento  chiodi  di  bronzo,  usato  dai  sacerdoti  più

 

importanti: flamines, flaminicae, vestali e pontefici per tagliare i liba [Fest. 348 349; Serv. Aen. IV, 262] che così prendevano il nome di seciva [Fest. 348 - 349]. Era conservata nel sacrario di Ops Consiva nella Regia assieme al praeficulum di bronzo

 

Securis: gli animali di grandi dimensioni erano uccisi usando un’ascia a singola lama [Verg. Aen. II, 224; Ov. Trist. IV, 2, 5; Met. XII, 249] che poteva essere una securis, ovvero uno strumento con una larga lama quasi rettangolare montata su un manico, o una dolabra, un’ascia con un lungo manico che portava in cima da un lato una lama e dall’altro una punta [Quint. I, 4, 12; Isid. Orig. XIX, 19, 11]. Tra gli strumenti dei pontefici figura l’ascia chiamata scena o sacena [Fest. 318 319; 330; Hor. Car. III, 23, 12], a singola lama: le rappresentazioni sulle monete fanno propendere per una securis, tuttavia Festo parla di dolabra. Oltre alla securis, era usato anche un grosso martello, malleus [Ov. Met. II, 624; Suet. Calig. XXXII]. L’inserviente che maneggiava  questi strumenti  era chiamato popa [Suet. Calig. XXXII; Prop. IV, 3, 62; Cic. Mil. XXIV, 65; Serv. Aen. XII, 120], oppure dolabarius [CIL V, 908].


Illustrazioni

 

In copertina: patera con raffigurazione di Minerva, I sec aev

 

W. Smith, LLD. W. Wayte - A Dictionary of Greek and Roman Antiquities London G. E. Marindin, 1890 Daremberg et Saglio - Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines

 

 

Mensa

Altare di Amemptus (oggi al museo del Louvre), sul lato è rappresentata una mensa con un coltello sacrificale, una patera e un vaso per versare il vino, che per alcuni è un praefericulum o forse una capis. Brunn in Ann.

d. Instit. 1856, pgg. 114 segg.

 

Capis

AR Denarius (3.78 gm). Rome mint. Struck 13 BC. C. Marius C.f. Tro (mentina tribu), moneyer. AVGVSTVS Bare head right; lituus behind / C MARIVS CF TRO III VIR Augustus standing left, veiled and togate, holding simpulum and lituus. RIC I 398; RSC 455.

Brutus, with P. Cornelius Lentulus Spinther. Denarius, mint moving with Brutus and Cassius 43-42, AR 3.89 g. BRVTVS Axe, culullus and knife r. Rev. Jug and lituus; below, LENTVLVS / SPINT. B. Iunia 41. C 6. Sydenham 1310. Sear Imperators 198. Crawford 500/7.

 

Patera

AR Denarius 16, Rome. Moneyer C. Antistius Vetus. 3,74 g. C ANTISTIVS VETVS III VIR Draped bust of Venus to r. wearing stephane and necklace. Rev. COS / IMP CAESAR AVGVS / XI Simpulum and lituus above legend, tripod and patera below. RIC 367. BMC 99. C. 348.

 

Simpulum

Caius Antonius. Denarius January-March 43, military mint (perhaps Apollonia in Illyricum). 3,69 g. C ANTONIVS M F PRO COS Female bust or genius of Macedonia to r. wearing kausia. Rev. PONTIFEX Simpulum, culullus and axe (secures). Cr. 484/1. Syd. 1286. C. 1. Sear 141.

 

Securis

 

P. Sulpicius Galba. Denarius 69, Rome. 2.63 g.Veiled head of Vesta to r. Rev. Knife, culullus and axe. Cr. 406/1. Syd. 838.

 

 

 

Maurizio Gallina

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Commenti: 1
  • #1

    Diego (mercoledì, 08 giugno 2016 09:11)

    Incredibile abbiamo trovato la moneta di Galba in Galizia! Quella con gli strumenti sacrificiali. Immagino che sarà di ceca Roma?

    Per info... Diego Piay Augusto diego.piay.augusto@gmail.com