Nell’antichità il pensiero che la morte sia inesorabile e che attenda tutti era in realtà un’idea confortante. Sia nell’Iliade con Ettore che consola Andromaca, che nell’Alcesti con le parole di Ercole nella casa di Admeto
“A tutti i mortali è fatale la morte e nessuno dei mortali sa se vivrà pure il giorno di domani”
(V.v 782-784)
risalta la reale verità che la morte sopraggiunge per tutti e ciò perché il Genio della nostra sorte è inesorabile e pertanto, come dice Lisia, è vano dunque piangere i
morti.
Questo medesimo sentimento ispira anche i maggiori poeti. Così, nel decimo libro delle Metamorfosi , Ovidio fa che Orfeo rivolga ai luoghi del Tartaro le parole:
“Omnia debemur vobis, paulumque morati
serius aut citius sedem properamus ad unam. Tendimus huc omnes, haec est domus ultima, vosque
humani generis longissima regna tenetis.“
“Ogni cosa è a voi soggetta, Dopo esserci trattenuti un po’ sulla terra, corriamo, chi prima chi dopo, verso una sola sede. Tutti noi tendiamo qui, questa è l’ultima dimora, voi tenete il dominio più durevole sul genere umano.”
Comune era anche un’altra specie di consolazione, ovvero che la medesima sorte sia riservata anche ai Grandi della Terra, ai re ed ai figli degli Dei. Il pensiero del fato inesorabile suggerisce
però anche di far bene attenzione alle ambizioni ed alle ricchezze umane, perché come canta Orazio in un suo Carmen a che pro spingere lontano il desiderio se la vita è così breve? “Quid brevi
fortes iaculamur aevo Multa?”
Perché correre ed affannarsi tanto a procurarsi ricchezze, delizie, piaceri se nessuna di esse potrà seguirci nell’Oltretomba? Properzio, ispirato anch’esso da questo pensiero, cantò in
un’Elegia :
“Haud ullas potabis opes Acheruntis ad undas….”
“Nulla delle mie opere porterò nelle onde dell’Acheronte”.
L’immagine della morte era decisamente vista come livellatrice, che mette tutti sullo stesso piano e non fa distinzione fra grandi e bambini e veniva invocata spessissimo dagli antichi a
consolazione del Fato estremo che ne attende, com’è dimostrato tutt’oggi dall’epigrafia che ci regala trascrizioni di questo pensiero che veniva frequentemente inciso nelle lapidi tombali greche
e latine. Solitamente i superstiti rammentano ai defunti di rallegrare il loro animo, poiché anche Ercole morì, come morirono altri figli di Giove e progenie dei re. La poesia lirica trasse
frequentemente ispirazione da tale pensiero, sempre Orazio infatti nel Carmen I ricorda il nocchiero che passando oltre il promontorio Matino consola l’ombra di Achita dicendo che
“Egualmente la Terra si dischiude al povero ed ai figli dei re”. Ma già Lucrezio aveva tentato di mostrare quanto fosse irragionevole la pretesa degli uomini rispetto l’immortalità con un
concetto particolare che si adattava benissimo anche allo spirito medievale ovvero “ E tu, esiterai e ti sdegnerai di morire, tu la cui vita è già simile alla morte giacchè tu dormi e dai
corpo ai sogni tuoi?”
Se la morte, nella mentalità antica, era la notte eterna e l’oblio, veniva di conseguenza che si dovesse godere della vita il più possibile, ed allora Catullo ci esprime più volte la
rassegnazione al domani che si preannuncia tetro e privo di scampo e lo capiamo attraverso le parole che dedica alla sua amata Lesbia, ovvero che “il sole può tramontare e risorgere, ma quando
per noi sarà finita la breve luce, sarà invece eterna la notte del sonno”, parole che personalmente, immagino sussurrate all’orecchio della giovane e disinteressata donna durante una
pigra sera d’estate nel corso di una passeggiata fra le rive del Lago di Garda nella penisola di Sirmione. Tibullo invece ci tramanda un dolce consiglio
“Interea dum Fata sinunt, iungamus amores, iam veniet tenebris Mors[...]”
"Nel frattempo, fintanto che i Fati lo permettono, uniamo i nostri sentimenti d'amore, presto giungerà la morte coperta di tenebra"
(Elegia I,1,69)
La mentalità romana era tipicamente piena di contraddizioni apparenti, infatti per la tendenza a considerare la morte sotto un aspetto giocondo, si giunse sino ad esagerazioni che possiamo anche
definire bonariamente, sguaiate! Nella pompa funebre si vedevano danzatori e mimi che offendevano la maestà della cerimonia con scherzi licenziosi e buffonate. Dionigi di Alicarnasso ci descrive
uno di questi cortei nel quale danzavano personaggi vestiti da satiri soprattutto nei funerali di persone importanti, ed infatti spesso uno dei mimi impersonava proprio il defunto che ne imitava
il modo di fare, di parlare e di comportarsi. Anche durante i primi secoli del cristianesimo si conservò quest’usanza di allegria proprio per rendere più “santo” il sepolcro, cosa che ovviamente
Agostino nel suo De Moribus ecclesiae condannò con violenza. Il cristianesimo era e sarà sempre contrario a “coloro che bevono sulle tombe e che offrono le cene ai cadaveri”, tuttavia se si
considera ciò che avviene oggi nei cimiteri il giorno dei morti possiamo ben dire che lo spirito arcaico ed italico emerge con prepotente forza nell’inconscio comune!
Se ci trovassimo a passeggiare per qualche viale funebre, potremmo ancora leggere epitaffi dolceamari che ci consigliano di Vivere di giorno in giorno e di ora in ora, poiché nulla ci appartiene
veramente.
Cosa possiamo dunque imparare noi moderni uomini e moderne donne, discendenti di antiche Ombre ?
Le parole hanno il potere immenso di tramandare insegnamenti e passioni senza tempo e senza alcuna sostanza che però possono imprimersi nella nostra mente e nel nostro cuore con una forza
spaventosa e terribile e donarci preziose indicazioni su come sia preferibile indirizzare il nostro pensiero nella Vita .
Un baldanzoso inno di gioia si legge in un’iscrizione funeraria romana (C.I.L VI 30103, Buecheler, Anth.Lat. Carm.epigr. II, 190) che ho potuto analizzare durante i miei studi epigrafici
recita:
VIVE DUM VIVIS!
godi la vita finché hai vita!
Il consiglio degli antichi ai loro discendenti attuali pertanto è sempre il solito, di godere del tempo propizio, di banchettare e fare festa con le persone care finché rimane la
breve vita!
Elena Righetto
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